lunedì 18 febbraio 2013

II incontro del I anno: L'educazione, una sfida urgente

La seconda tappa del nostro itinerario annuale si è aperto con la proiezione del seguente filmato, che riassume quanto condiviso nell'incontro precedente rispetto alle paure e alle speranze che riempiono il cuore di noi genitori quando pensiamo al futuro dei nostri figli:



Ci siamo poi fermati a riflettere sull'importanza del ruolo educativo che, come genitori e come comunità, abbiamo nei confronti dei nostri figlie dei nostri ragazzi.

Possiamo facilmente renderci conto di trovarci di fronte ad alcuni problemi che rendono difficile e impegnativo l'atto educativo:
- L'ambiente in cui vivono i nostri figli possiede strumenti di dispotica invasione delle coscienze a tal punto che ci si chiede spesso se dinnanzi a queste forze abbiamo sufficiente capacità di educare secondo criteri di valore che appartengono alla nostra famiglia.
- I ragazzi sono immersi in un relativismo di pensiero e di scelte tale per cui sembra non esistere più una Verità, ma la molteplicità smisurata delle opinioni. Ognuno pretende di ergere il proprio pensiero, il proprio parere, la propria voglia a verità assoluta.
- Non solo non esiste più una Verità, ma non esiste neanche il Bene. Ognuno può decidere da sé cosa è buono e cosa può o non può fare.
- Un dato assoluto e indiscutibile della vita dell'uomo d'oggi è l'esaltazione della libertà individuale. Essa viene prima della Verità e del Bene. È la libertà di ogni singolo soggetto che determina che cosa è bene e che cosa è male.
- Anche la relazione con il tempo è fragile. Infatti, il tempo che passa non è più inserito in una progettualità che tende verso una pienezza, ma si perde nell'attimo fuggevole o rimane chiuso in un passato che non ritorna più. Per un ragazzo l'oggi è un dato da vivere e da esaurire ed è svincolato sia dal passato che dal futuro. Non è occasione concreta e disponibile per realizzarsi in una maturità che dia senso alla vita.

A questo punto è inevitabile chiedersi onestamente se in un tale contesto è ancora possibile educare. A che cosa possiamo educare, dal momento che non esiste un Bene verso cui orientare il desiderio; non esiste un Vero verso cui orientare la ricerca intellettuale; non esiste più la pienezza dell'essere umano? Si può limitare l'educazione semplicemente al rispetto della libertà altrui cercando di raggiungere il massimo della soddisfazione personale senza arrecare danno? È condivisibile la filosofia di chi afferma: la mia libertà finisce dove inizia quella dell'altro? E ancora: è possibile educare alla relazione con l'altro considerandolo estraneo al mio destino e svincolato da legami di solidarietà e comunione? È evidente, infatti, che la cultura in cui i nostri ragazzi sono immersi, fa spesso considerare l'altro come un concorrente e un antagonista, impedendo di sperimentare la bellezza delle relazioni.

Queste difficoltà non ci permettono di concludere che allora educare è impossibile, ma ci incoraggia a identificare ancora strade percorribili. Riportiamo una breve citazione di Romano Guardini in cui l'educatore è incoraggiato a compiere la sua missione a partire proprio dal riconoscimento di un dovere irrinunciabile: educare è educarsi: "La vita viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente 'forza di educazione' consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere... È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi ciò che da credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l'altro... Non ci è mai lecito ritenerci soddisfatti di noi stessi e credere di essere già formati. Deve sempre permanere viva una positiva, santa insoddisfazione. Siamo figure incompiute, soltanto abbozzate. Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un'identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere".

La speranza che il cammino educativo possa essere percorso fino in fondo si radica nella convinzione che tocca all'adulto riscoprire i fondamenti veri della propria esperienza di vita, avendo chiaro, innanzitutto per sé, ciò che promuove la propria umanità, e quindi è bene, e ciò che invece la tradisce, e quindi è male. È la sfida con il senso del tempo, dei gesti, degli accadimenti, ma soprattutto della totalità della persona umana che è in gioco. Un senso che va pazientemente ricercato e che non è il frutto dell'inventiva umana, essendo dono di Dio che qualifica l'umanità.

L'educazione consiste, quindi, nel rinunciare personalmente al relativismo delle idee e dei valori per aiutare il giovane a identificare a sua volta ciò che lo realizza in pienezza in quanto essere umano. L'atteggiamento dell'accompagnare, del prendere per mano, dell'indicare un orientamento qualifica il compito del genitore.

In concreto il genitore deve essere una persona matura che cura prima di tutto la propria crescita personale e ha risolto in maniera positiva il problema della propria identità. Egli sa chi è e sa dov'è. È come il Padre misericordioso della parabola che non scende a patti con i figli, non li rincorre, ma si pone in modo chiaro e semplice in coerenza con gli ideali che lo hanno sempre guidato nella relazione paterna. Ascoltiamo R. Guardini: "Da ultimo, come credenti diciamo: educare significa aiutare l'altra persona a trovare la sua strada verso Dio. Non soltanto, far sì che abbia le carte in regola per affermarsi nella vita, bensì che questo 'figlio di Dio' cresca fino a raggiungere la 'maturità di Cristo'. L'uomo è per l'uomo la via verso Dio. Perché lo possa essere davvero, però, deve egli stesso percorrere quella via. È assurdo parlare a un uomo della strada verso Dio, se non la si conosce per esperienza personale, o almeno non la si cerca".
 
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Dall'emergenza educativa" alla scommessa sulle virtù (dal libro "Educare oggi alle virtu'" di   G. Savagnone)

«I giovani», scrive un osservatore non sospetto di moralismo, «anche se non ne sono consci, stanno male» (GAL1MBERTI 2007, p. 11). Non bisogna lasciarsi ingannare dalla loro chiassosa euforia nelle notti in discoteca, dal vorticoso succedersi delle loro esperienze sessuali, dalla loro corsa dietro le mode. Essi «cercano i divertimenti perché non sanno gioire» (ivi, p. 34).

Quella che sembra pienezza di vita è in realtà solo l'antidoto a un profondo disagio interiore: «Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l'angoscia» (ivi, p. 11).

Un tragico sintomo di questo malessere sono i suicidi — quat-tromila l'anno! — che nel nostro Paese, tra i giovani sotto i venti-cinque anni, costituiscono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Per non parlare dei gesti di violenza gratuita, insensata, archiviati con l'agghiacciante formula burocratica: «Omicidio volontario premeditato senza movente».

È stato, tuttavia, osservato da più parti che le nuove generazioni, piuttosto che le responsabili di questo smarrimento, ne sono soprattutto le vittime. L'emergenza educativa" non andrebbe, perciò, attribuita tanto a loro, quanto, agli educatori, che non sanno più trovare parole convincenti da dire, né esempi da offrire. Come si dice negli Orientamenti pastorali della CEI: «I giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che suscitino amore e dedizione» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 12).

Ma forse neanche questa considerazione va al fondo del problema. In realtà, se i giovani sono in crisi, è «perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui (...) Nel deserto dell'insensatezza che l'atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale» (GALIMBERTI 2007, pp. 11-12).

Colpisce la sintonia tra la diagnosi dell'intellettuale "laico" e quella di Benedetto XVI nella Lettera sull'educazione, da lui indirizzata, alla fine del gennaio 2008, alla diocesi e alla città di Roma: «Troppe incertezze e troppi dubbi circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita».

La stessa crisi degli adulti, piuttosto che esserne la causa ultima, dipende a sua volta da questo clima, che va ben al di là delle responsabilità dei singoli: «Quando infatti» — notava il pontefice — «in una società e in una cultura segnate da un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente, tra i genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al proprio compito, e ancor prima il rischio di non comprendere più quale sia il proprio ruolo e la propria missione. Così i fanciulli, gli adolescenti e i giovani, pur circondati da molte attenzioni e tenuti forse eccessivamente al riparo dalle prove e dalle difficoltà della vita, si sentono alla fine lasciati soli davanti alle grandi domande che nascono inevitabilmente dentro di loro».

Dalla diagnosi si può ricavare la terapia: se la crisi si pone sul terreno culturale, «è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un'implosione culturale di cui i giovani (...) sono le prime vittime» (GALIMBERTI 2007, p. 12).

Un elemento centrale di questa "implosione" è sicuramente la crisi del concetto di virtù. Nella pratica educativa tradizionale esso giocava un ruolo fondamentale. Oggi perfino il termine sembra ormai desueto. Lo si usa quasi solo per scherzo, o per deridere soggetti repressi.

Piuttosto, sono i vizi che interessano, che "intrigano", che ap-paiono insomma molto più attraenti della loro controparte, come evidenzia la fioritura di studi a loro riguardo. Forse perché hanno l'aria di esprimere con maggior verità la realtà dell'essere umano così com'è effettivamente, al contrario delle virtù, che sembrano richiamare l'insincerità e l'ipocrisia.

Il discorso sulle virtù sarebbe, a questo punto, da considerarsi chiuso, se non fosse per la curiosa circostanza che, proprio mentre esse toccano nella mentalità corrente il livello più basso di considerazione, invece nell'ambito della filosofia morale esse, soprattutto nei paesi anglosassoni, tornano ad essere oggetto del vivo interesse di studiosi e pensatori, al di là di ogni appartenenza ideologica o religiosa. Da questo punto di vista, la stessa cultura postmoderna che ha generato la crisi della morale tradizionale, offre nuove prospettive che forse possono portare oltre di essa.

Questo ci spinge a chiederci se non sia possibile, avvalendoci degli studi più recenti, rivisitare il concetto di virtù in una prospettiva diversa da quella del passato, per riproporlo nei nuovi termini anche al di fuori degli ambienti accademici e puntare su di esso, a livello educativo, per fronteggiare con qualche speranza di successo l'"ospite inquietante".

1 commento:

  1. oggi ricevo mail che ci ricorda l'incontro di domenica e quindi ho letto questo blog che riassume il precedente. Mi ricordo che alla fine della scorsa volta ci chiedevamo perché mai i figli dovrebbero imparare da noi con l'esempio e poi ricordo una provocazione lanciataci alla fine dello stesso incontro, sulla "felicità", cioè sul fatto che la religione oggi chiede di essere "felici"... Ecco, mettendo insieme le due cose, in questo periodo ho pensato che come genitori dovremmo avere non solo il diritto ma anche il dovere di essere "felici", allora sì che il nostro esempio diventa accattivante e i figli sono motivati ad imparare da noi. Perché mai dovrebbero ascoltare e imitare qualcuno che è sempre arrabbiato, stressato, triste, nervoso? rg

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